L’ennesima emergenza rimette in tavola questioni che la crisi del
modello associativo fin qui conosciuto ha progressivamente sepolto,
tentando di rimuoverlo definitivamente insieme a concetti come
solidarietà, cooperazione, mutualità, welfare e via declinando la
necessità di essere “società”.
Molto tempo è passato, e molte cose sono mutate da quando il
vecchio di Stagira accreditava la caratteristica “sociale” dell’uomo e
tuttavia la natura stessa, che sia madre o matrigna poco importa, si
incarica ogni tanto di riportare alla luce le radici di quell’essenza,
che non è affatto istintiva e invece, proprio come i tratti somatici
(con buona rassegnazione dei razzisti) è frutto dell’esperienza
accumulata nei tempi.
Esperienza non necessariamente consapevole, così come quella che
ci fa la pelle scura o i capelli biondi. E tuttavia in grado di plasmare
la nostra effettiva tendenza ad essere. Qualcosa di complesso, di non
immediatamente o schematicamente riducibile a formula, ma che tuttavia
necessita di tempi storici per modificarsi.
Intendiamo, nel caso specifico, la tendenza talmente depositata da
essere percepita come “naturale” (nel senso di insita, connaturata) ad
essere animali sociali, a ricercare cioè, e costruire, strutture di
compartecipazione allo sforzo di vivere. Compartecipazione che si rivela
sia negli aspetti economici che in quelli affettivi, sia nelle
conquiste culturali che nelle condizioni di convivenza.
E proprio quando i rapporti economici tendono a promuovere
l’individualismo e si indebolisce progressivamente l’idea del “privato”
come “politico” nell’illusione di poter bastare ciascuno a sé stesso, la
casualità di un problema cui non siamo preparati e contro cui le
risposte individuali non hanno alcun effetto, ci ripone di fronte alla
questione se sia o meno possibile fare a meno dei concetti e delle
pratiche di cui all’inizio (solidarietà, cooperazione,…).
Un terremoto devastante come quello del Centro Italia o l’incendio
dell’Australia o dell’Amazzonia o le alluvioni ormai sempre più ampie e
frequenti, le lunghe guerre con orrendi massacri di inermi e innocenti e
cospicue devastazioni dell’ambiente ci fanno sentire deboli e poveri.
Ma fenomeni simili sono comunque considerati circoscritti, “locali” e
inducono al più a sperare che non tocchi a noi e fare qualche piccola
donazione taumaturgica.
Quando la tragedia assume proporzioni generali, ossia in senso
letterale investe il genere umano intero, come nel caso dei
fondamentalismi criminali del terrorismo internazionale, o come una
pandemia mortifera e sconosciuta come quella che affrontiamo oggi,
nessuno si sente più protetto, relativamente al sicuro, nessun rifugio è
inviolabile.
E allora ci si riscopre umani, si dichiara il desiderio di
contatto umano, sia pure nelle forme ingenue dell’abbraccio, della
convivialità spicciola, e piano piano si comincia a ricostruire almeno
l’immagine delle relazioni, e della loro necessità pratica, vitale, non
certo ideologica.
Si smette di vedere gli altri come ostacoli alla propria libertà
ed autodeterminazione, al contrario li si considera indispensabili per
la promozione di sé, che può avvenire solo attraverso relazioni
effettive, scambi, riconoscimento, non certamente attraverso
l’autocompiacimento della clausura fisica o comportamentale che sia.
Ora, se fossimo tutti sinceri, dovremmo anche veder sparire le
illusioni nazionalistiche, razzistiche, discriminatorie in genere,
inconsistentemente fondate sulle differenze come fossero limitazioni e
non invece ricchezze. Il genere, i limiti fisici e psichici, la salute,
il censo, il livello culturale, il ruolo sociale, i caratteri somatici
non dovrebbero più valere come elemento di gerarchizzazione della
popolazione, la quale dovrebbe naturaliter divenire finalmente
popolo, inteso come collettività cosciente, consapevole, impegnata per
il progresso comune e generale delle condizioni materiali di vita. Dove
per condizioni materiali si intende non solo ciò che attiene ai bisogni
fisici, ma tutto quanto concorre “materialmente”, ossia di fatto, allo
sviluppo della dignità umana.
Tutti vediamo, con una certa volontà di fiducia, come si manifesta
oggi, nella necessità di stare lontani, la voglia di stare vicini che
decliniamo come possiamo, rimettendo il tricolore a segnale di unità,
non più quindi come distintivo ma come aggregante, dentro il quale, come
vorrebbe la Costituzione che è il programma di una società e non un
testo lirico, c’è posto per tutti purché non ne tolgano ad altri.
Cantiamo dai balconi e ci commuoviamo per il sacrificio di chi opera per
combattere il virus non solo per mestiere, per dovere contrattuale, ma
nella grandissima maggioranza anche per alto senso civico, per quello
che un tempo si sarebbe chiamato dovere morale. Cerchiamo perfino di
sdrammatizzare, un po’ ridendoci sopra con esorcismi satirici, un po’
cercando rassicurazione in auspici sentimentali e tutto sommato
infantili come “andrà tutto bene” o “insieme ce la faremo”.
Infantili e sentimentali, non stupidi. Perché, sia pure in una
declinazione quasi nazional-popolare, questi atteggiamenti rimettono in
vista l’essenza della lunga battaglia della civiltà contro la barbarie:
mentre tutto il mondo si sforza di conservare l’umanità, la disumanità
qui e là fa comunque capolino, a ricordarci che la virtù non è
automatica e che bisogna combattere per preservarla. Trump e Johnson,
qualche sciacallo che ruba dall’ospedale i presidi di difesa dal
contagio, nella loro ignobile manifestazione, rafforzano però la
reazione positiva, intanto di condanna e subito dopo di allontanamento
da chi propugna egoismi e pratiche socialmente delinquenziali.
Che questa esperienza produca riposizionamenti nelle relazioni di
massa e accenda qualche lanterna su aberrazioni come razzismi, sessismi,
fobie e altre tragedie, è abbastanza prevedibile. Quali saranno le
dimensioni e soprattutto la durata di queste riacquistate facoltà è da
vedere.
Però su questo si può intervenire. Lo si può fare a livello
istituzionale (altrimenti non si capisce a che serva la democrazia) e
anche a livello sociale, intervenendo come cittadini organizzati
(meglio) o singoli per riproporre una lettura civile, umana, dignitosa
dei rapporti sociali, dei diritti, delle finalità del nostro operare.
Come ANPI ci auguriamo e lavoreremo affinché anche questa guerra sia di monito e ci consegni, oltre ai lutti e ai danni, la possibilità di promuovere con maggior forza ed efficacia gli strumenti per la costruzione ed il rafforzamento di quanto è messo in discussione dall’individualismo, dal consumismo, dalla spettacolarizzazione della vita stessa.
Giovanni Morsillo – Presidente provinciale Anpi Frosinone