Della retorica non abbiamo bisogno. Di ragionamenti sì, sempre ed in particolare il 23 maggio. Se tanto si conosce sulla strage, poco si conosce sul prima e sul dopo. Sul prima è evidente che ancora non si conoscono quelle “menti raffinatissime” etichettate così dallo stesso giudice successivamente all’attentato all’Addaura, sul dopo e su come sia cambiato quel mondo mafioso, escludendo i sensazionalismi, si parla troppo poco. Fu Giovani Falcone, il primo ad intuire che la mafia non era una somma di fenomeni locali, ma un fenomeno estremamente complesso, convergenza di tanti fattori politici, culturali, e sociali e per sconfiggere questa piaga, dunque, l’azione deve essere svolta a 360 gradi su queste tematiche. La cronaca di questi giorni ci racconta di cosche attivissime nel cercare di rilevare imprese sane in difficoltà, di farsi stato parallelo ed arrivare prima delle istituzioni.
Giovanni Falcone in vita ha perso sempre, oggi certa stampa non si sarebbe fatta troppi scrupoli nel definirlo “perdente”. Ma è proprio in quella piega che si trova l’essenza principale del suo messaggio: fare il proprio lavoro, farlo sempre con dignità. Convivere con la paura, ma non piegarsi ad essa. Impegnarsi totalmente per dare liberta ad una terra e ad una nazione ma vivere da prigioniero, da morto che cammina dicevano i mafiosi e non solo. Dopo la sua più grande vittoria, quella del maxi processo a Palermo gli edili issavano cartelli: Viva Ciancimino, viva la mafia. Al giornale di Sicilia arrivavano lettere da cittadini che non potevano riposare per le sirene assordanti della scorta del giudice. Fateli vivere tutti isolati a noi questa guerra non interessa, vogliamo la tranquillità.
E’ nella quotidianità che possiamo dare un senso a quei sacrifici, con le scelte. Le scelte di comprare o meno quella casa, di comprare o meno quel prodotto, di andare o meno in quel ristorante, di votare o no quel politico.
Grazie Giovanni, Grazie Francesca, Grazie Vito, Grazie Rocco, Grazie Antonio